Wednesday, August 31, 2005

Diario di un ricovero ospedaliero

Diario di un ricovero ospedaliero

Sette maggio 2004: entro in servizio alle ore 13, lavoro come infermiere professionale presso la Clinica Otorinolaringoiatrica dell'Ospedale San Martino di Genova: le colleghe notano che ho difficoltà a tenere la testa diritta e che mi reggo in piedi con fatica.
Ho anche problemi a deglutire liquidi e un abbassamento della palpebra superiore sinistra.
Vengo accompagnato al pronto soccorso da un medico del reparto e colà, dopo una visita neurologica, viene formulato il sospetto di una miastenia gravis.
Per chiarire il quadro clinico viene eseguita una TAC toracica con mezzo di contrasto che evidenzia la presenza di un timoma, (tumore del timo), di notevoli dimensioni.
Il giorno dopo vengo trasferito in Clinica Neurologica.
Comincio ad avvertire il disagio di essere un paziente, sono passato da un giorno all'altro dalla condizione di operatore sanitario a quella di ricoverato; nel frattempo mia madre, che era a casa, affetta dal morbo di Alzheimer e che io accudivo, muore, ma io non posso ottenere il permesso di lasciare l'ospedale in quanto le mie condizioni cliniche non lo permettono.
Credevo, sino a qualche giorno fa, di essere affetto da una sindrome ansioso-depressiva, ora scopro che la stanchezza che avvertivo durante le attività quotidiane, e soprattutto durante il lavoro, era causata non da problemi psicologici o psichiatrici ma bensì dalla miastenia, che causa un senso generale di affaticamento.
In Clinica Neurologica mi vengono fatti altri esami ematochimici, in particolare la ricerca di autoanticorpi: la miastenia è infatti una malattia autoimmune, il sistema immunitario, impazzito, produce anticorpi diretti contro strutture appartenenti al proprio corpo, al “self”, come si dice, invece di limitarsi a produrli contro il “non-self”, ossia contro gli agenti esterni, batteri o virus che siano.
In particolare nella miastenia gli anticorpi sono diretti contro i recettori per l’acetilcolina presenti nella giunzione neuromuscolare, il vitale punto di collegamento tra il nervo e il muscolo.
Scopro con spavento di dovermi sottoporre a un intervento chirurgico, una timectomia, cioè l’asportazione del timoma.
Pare che questo intervento possa migliorare di molto la mia situazione clinica.
Inoltre, come mi viene spiegato dal chirurgo toracico che viene a visitarmi, c’è il rischio che il tumore, che è già piuttosto voluminoso, comprima le strutture vitali contenute nel mediastino, lo spazio compreso tra i due polmoni, dove si trovano organi come il cuore e l’esofago, e grosso vasi come l’arteria aorta.
Il chirurgo mi spiega come verrà effettuato l’intervento: una sternotomia, e subito dietro lo sterno si trova il timo, che verrà asportato.
La cosa che mi inquieta di più tuttavia è il decorso postoperatorio, in quanto mi viene spiegato che c’è la possibilità che debba restare alcuni giorni in un reparto di rianimazione perché potrei avere dei problemi respiratori: infatti la malattia può provocare anche un deficit dei muscoli respiratori e quindi la necessità di una ventilazione assistita.
Vengo trasferito temporaneamente nel reparto dove lavoro come infermiere, in Clinica Otorinolaringoiatrica, dove vengo gentilmente ospitato in attesa che si liberi un posto nel reparto di chirurgia dove verrò operato.
Il problema organizzativo principale pare sia la disponibilità di un posto letto in un reparto di rianimazione, dove dovrei restare qualche giorno dopo l’intervento.
Nel frattempo le condizioni neurologiche peggiorano: è insorta una diplopia, visione sdoppiata, dovuta ad un deficit dei muscoli oculomotori.
Non riesco più a leggere e la cosa mi deprime alquanto, tanto che comincio ad avere difficoltà anche ad alimentarmi.
Viene consultato un nutrizionista che mi prescrive degli integratori alimentari.
Sono trascorsi, dal giorno del mio ricovero, quasi due mesi.
Le giornate trascorrono lentamente, mi annoio, unico momento di gioia le visite quotidiane della mia compagna che si occupa anche di tutti i problemi burocratici legati alla scomparsa di mia madre.
Arriva finalmente il giorno del trasferimento nel reparto di chirurgia dove sarò operato.
La notte dell’intervento un’infermiera mi prepara una tazza di camomilla, riesco a dormire.
Alla mattina, dopo aver salutato la mia compagna e due colleghe che sono venute a salutarmi, vengo accompagnato nella sala operatoria, sono sereno.
Scopro che molti vogliono vedere il mio intervento, una dottoressa che è stata invitata ad andare ad assistere ad un’altra operazione dice: “io il timoma non me lo perdo”.
Si tratta infatti di una patologia piuttosto rara, i malati di miastenia in Italia sono soltanto 15000.
Mi risveglio nel “box numero quattro” del servizio di rianimazione adiacente alle sale operatorie, sono intubato e attaccato ad un respiratore, una vena centrale è stata incannulata per somministrarmi farmaci e alimenti, le mie funzioni vitali sono costantemente monitorate grazie ad una serie incredibile di strumenti.
Nel pomeriggio, su mia richiesta (non posso parlare, naturalmente, ma comunico a cenni e scrivendo su di un foglio di carta), vengo stubato, viene cioè rimosso il tubo endotracheale che rende possibile la ventilazione assistita.
Sono contentissimo ma, mentre trascorrono i minuti, mi rendo conto che respiro con sempre maggiore difficoltà: chiamo aiuto, vengono la caposala e un’infermiera, chiedo loro di permettermi di telefonare alla mia caposala perché mandi un mio collega a tenermi compagnia, voglio che qualcuno resti con me, mi viene risposto che ciò non è possibile, la situazione respiratoria peggiora, adesso non riesco più a respirare, perdo conoscenza, vengo reintubato.
Sono rimasto senza tubo endotracheale soltanto qualche ora.
Essere in ventilazione assistita è una sensazione molto strana: alcuni atti respiratori vengono effettuati autonomamente altri, in particolare quello che da un anestesista viene definito “il respirone”, vengono imposti dalla macchina: questo naturalmente dipende da come viene impostato il ventilatore meccanico.
Io riesco a fare due, tre atti respiratori autonomamente (la macchina accompagna e aiuta la mia respirazione), il quarto atto viene provocato dal ventilatore ed è molto lungo e profondo.
Non posso muovermi, sono letteralmente inchiodato al letto.
Il pericolo principale, in rianimazione, è rappresentato dalle infezioni: infatti vi sono troppe vie di ingresso per i germi: il catetere vescicale, le linee venose centrali, il catetere arterioso per la rilevazione continua della pressione arteriosa.
Periodicamente si forma del catarro nelle vie respiratorie che ostacola la respirazione: debbo allora chiamare l’infermiere che si occupa di me per essere aspirato: il ventilatore viene temporaneamente staccato ed egli inserisce un sondino d’aspirazione attraverso il tubo endotracheale per aspirare le secrezioni.
La cosa curiosa è che in rianimazione, con mia sorpresa, non esistono i campanelli: la guardia effettuata dagli infermieri è infatti definita una “guardia attiva”, cioè sono loro che si devono rendere conto dei problemi del paziente e porvi rimedio, a differenza della “guardia passiva” che viene effettuata nei normali reparti di degenza dove fino ad ora avevo lavorato.
Capisco queste regole ma penso che, per un paziente sveglio, dovrebbe essere messo a disposizione un campanello: non potendo parlare, infatti, l’unico modo che ho per attirare l’attenzione è quello di sfilarmi dal dito il saturimetro, una sorta di ditale che monitorizza la concentrazione di ossigeno nel sangue: dopo qualche secondo suona l’allarme e arriva l’infermiere.
Il tempo passa, vengo stubato e trasferito nel reparto di terapia subintensiva.
Anche qui però si ripete il problema dell’insufficienza respiratoria: mentre il direttore del dipartimento, al mio cappezzale, mi urla di respirare io perdo nuovamente conoscenza.
Quando mi risveglio vedo l’anestesista che mi ha intubato che, sopra di me, mi sta ventilando con un pallone ambu, non riesco a muovere nulla, nemmeno le dita, sento la voce della mia compagna che, piangendo, chiede mie notizie, sento i commenti dei medici e degli infermieri, con terrore odo la frase “se va avanti così dovremo fare una tracheotomia”, cerco di stare calmo, dopo la difficoltà respiratoria che ho sperimentato il ventilatore meccanico è quasi una benedizione, mi dà sicurezza, si occupa lui di farmi fare degli atti respiratori validi ed efficaci.
Di notte non riesco a chiudere occhio, di giorno nemmeno, e la cosa va avanti da più di un mese.
Sono esausto ma non mi riesce di addormentarmi: sono troppo intento a sorvegliare tutto quello che accade intorno a me, campanelli d’allarme suonano in continuazione, la pompa infusionale di una flebo che è terminata, il saturimetro che si è spostato dal dito, un elettrodo del monitoraggio dell’elettrocardiogramma che si è staccato, la pressione arteriosa che è troppo alta o troppo bassa, la frequenza cardiaca che è salita, e ad ogni allarme io sobbalzo e mi spavento.
Quando la mia compagna mi viene a trovare mi rilasso e ho momenti nei quali, letteralmente, svengo dal sonno, ma esso dura soltanto pochi secondi, mi risveglio subito con un sobbalzo, non lascio che il mio corpo si abbandoni al sonno nemmeno per un minuto: ci sono troppe cose da tenere sotto controllo!
Chiedo alla mia compagna di sposarmi, lei accetta: il matrimonio verrà celebrato in rianimazione e, a detta di medici e infermieri, è la prima volta che una cosa del genere accade.
So che lei lo ha fatto per darmi forza, un motivo in più per cercare di guarire, per tirarmi fuori dal “box numero quattro”.
La mattina del 26 luglio 2004, giorno in cui viene celebrato il matrimonio, vengo stubato per l’occasione.
La cerimonia è molto rapida, le infermiere scattano fotografie, siamo tutti commossi, io, la sposa, i testimoni e gli amici.
Grazie al matrimonio viene gentilmente concesso alla mia compagna, adesso mia moglie, che beneficia di un permesso matrimoniale, di avere degli orari d’ingresso in rianimazione più elastici: io aspetto con ansia il momento del suo arrivo, voglio che mi parli in continuazione, raccontandomi tutti gli avvenimenti di quella che ormai considero “la vita fuori”.
Nel frattempo continuano gli accertamenti, vengono effettuate le indagini più disparate, una nuova TAC toracica con mezzo di contrasto, ecografie, elettrocardiogrammi, una biopsia midollare (si sospetta una sindrome mieloproliferativa), un broncoaspirato (per il quale vengo, fortunatamente, addormentato), visite dello specialista neurologo, cardiologo, internista, oculista, eccetera.
Si sospetta, tra le altre cose, una trombosi della vena cava, e per questo motivo mi vengono somministrati degli anticoagulanti.
Qualche giorno dopo, durante un’ecocardiografia, sento il medico esclamare: “il cuore galleggia”.
Purtroppo so cosa significa: un versamento pericardico, situazione potenzialmente letale.
Il cardiochirurgo tenta di inserire un ago nello spazio pericardico dall’esterno, per effettuare una pericardiocentesi, ma la presenza del processo cicatriziale dovuto al primo intervento sul torace impedisce questa manovra, devo quindi ritornare in sala operatoria.
Dopo l’intervento, che viene effettuato la sera stessa, mi risveglio nuovamente intubato.
Trascorrono ancora due settimane , durante le quali vengo stubato, riprendo lentamente ad alimentarmi, mi viene sospesa la nutrizione parenterale (la nutrizione per via venosa), e un bel giorno mi viene chiesto se sono contento di uscire dalla rianimazione: chiedo “perché, vengo trasferito?” e mi viene risposto di sì: finalmente vengo trasportato nella terapia subintensiva, poi nella degenza: ne sono uscito, quasi non credevo che sarei tornato ad una vita normale.
Sono trascorsi quattro mesi dal giorno del mio ricovero, due dei quali trascorsi in rianimazione.
Quando esco dall’ospedale osservo con meraviglia le auto, gli edifici, la gente.
I sintomi neurologici della miastenia sono scomparsi, inizia la convalescenza, durante i pomeriggi amo passeggiare per le vie del centro e guardarmi intorno.

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